La sera del 9 ottobre 1963 Arnaldo Olivier, al tempo diciassettenne, era al bar con gli amici a guardare la tv. “Era un mercoledì di Coppa dei Campioni, giocavano il Real Madrid e i Glasgow Rangers”. Prima della fine della partita qualcosa, “forse un presagio”, gli dice di tornare a casa, nella frazione di Codissago, leggermente rialzata rispetto alla vallata del Piave che di lì a pochi minuti sarebbe stata travolta dall’onda. Sta per sdraiarsi a letto quando sente un boato indescrivibile. “Ancora oggi – racconta – quando sento un rumore nella notte mi alzo d’istinto ed esco in giardino per capire da dove proviene“.
Degli istanti successivi la mente conserva pochi flash. Prima l’acqua che lo trascina violentemente e lo fa volteggiare “come un filo d’erba” tra un mare di oggetti galleggianti, poi l’abbraccio con la madre trascinata fuori dalla casa facendosi spazio fra i detriti che stanno defluendo a valle. Anche il padre è salvo per miracolo. Sul momento si pensa ad una catastrofe naturale, “alla diga non pensavamo”. Del resto, del trasporto in elicottero in ospedale e anche del successivo ritorno a casa non ricorda più nulla. La mente rifiuta di fissare quelle immagini viste dall’alto, dalla barella dei soccorsi, di una Longarone ridotta ad un deserto di fango.
“Per 35 anni non ho più parlato del Vajont. Né a casa, né al bar, né al lavoro” racconta. Come per Arnaldo Olivier e per gli altri superstiti, il debito di memoria con quel passato si presenta nel 1993 quando Marco Paolini porta a teatro la sua orazione civile “Vajont 9 ottobre ’63”. Da quel momento in poi chi è sopravvissuto trova la forza per rompere il silenzio. “Perché di Vajont bisogna parlare. Ricordare e trasferire la memoria della tragedia ai figli e ai nipoti diventa un’azione necessaria per quelle 2000 vittime sacrificate in nome del profitto e che ad oggi non hanno ancora avuto giustizia”.
Nell’Italia del boom economico matura il progetto della diga celebrata come la più grande d’Europa. Il complesso del “Grande Vajont” riuniva e collegava diversi bacini nelle valli circostanti fornendo energia idroelettrica. L’azienda costruttrice è la Sade – Società Adriatica di Elettricità – che ignora i moniti di esperti e residenti sul pericolo concreto di frane. Oggi infatti si parla di Vajont come di una “tragedia annunciata”. Gli abitanti di Longarone si erano abituati a quel “terremoto”, come chiamavano i boati sotterranei che provenivano dall’area della diga, terminata nel 1960. Era l’acqua che entrava nelle falde lanciando segnali che rimasero inascoltati per anni da chi poteva fare qualcosa e invece non mosse un dito.
Poco dopo le 22.30 del 9 ottobre 1963 una gigantesca frana si stacca dal Monte Toc piombando nel bacino artificiale stretto nella gola del torrente Vajont, affluente del Piave. L’onda d’urto provocata prima dallo spostamento d’aria e poi dall’onda colossale (48 milioni di metri cubi d’acqua) sprigiona una forza di quasi due volte superiore alla bomba di Hiroshima, “tanto che qui – racconta Olivier – si parla di “Hiroshima del Cadore”. L’onda travolge l’intera vallata radendo al suolo Longarone, Pirago, Maè, Rivalta, Villanova, Faè, Codissago, Castellavazzo, Erto e Casso, questi ultimi alle pendici del versante friulano del Monte Toc.
Le vittime sono quasi 2000, centinaia gli sfollati. La tragedia scuote l’Italia attivando un’imponente macchina dei soccorsi a cui seguirà la ricostruzione di Longarone e delle sue frazioni che tuttavia non sarà mai più come prima. “La vecchia Longarone me la sogno ancora – racconta Olivier – di quello che era prima del Vajont non rimane nulla. Gli amici sono morti, non ci sono più le osterie di paese, i bar e le case dove abbiamo vissuto la nostra giovinezza spensierata. Il tessuto sociale da allora si è completamente sfaldato”.
Oggi, 59 anni dopo il disastro, di quel vecchio paese rimangono i ricordi e i cimeli risparmiati dall’onda conservati al Museo nel nuovo centro di Longarone, e nell’area museale annessa al cimitero di Fortogna. In quest’ultimo, dentro una teca, una serie di orologi hanno le lancette ferme alle 22.39. A Longarone si parla di “prima” e “dopo il Vajont”, una spaccatura indelebile nella storia e nella percezione del tempo di chi è sopravvissuto alla catastrofe. Anche la diga è ancora lì, un’opera ingegneristica mirabile che sopportò un urto che superava di gran lunga la sua portata: “Un simbolo della bramosia di denaro che ha messo da parte la vita umana”.
Delle visite guidate consentono di percorrere il coronamento della diga che corre sotto la montagna segnata da una lunga spaccatura a forma di “M” da cui si staccò la frana della morte.
Quattrocentottantasette è il numero dei bambini morti nel disastro del Vajont. Lungo il sentiero pedonale che dal parcheggio conduce alla diga, centinaia di bandierine colorate riportano il nome e l’età delle piccole vittime. Quelle prive di nome, decorate da un angioletto, ricordano i bimbi mai nati, morti quella notte nel grembo delle mamme.
Le vittime del Vajont, molte delle quali non furono mai riconosciute, riposano al cimitero monumentale di Fortogna, frazione di Longarone, inaugurato dopo la ristrutturazione nel giugno 2004. Adagiati su un grande prato verde, avvolto da un silenzio irreale, sfilano 1910 cippi in marmo bianco. Sul portale d’ingresso del cimitero una scritta invita a non dimenticare: “Prima il fragore dell’onda, poi il silenzio della morte, mai l’oblio della memoria”.
(Fonte: Rossana Santolin © Qdpnews.it)
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