Fabio guida il suo fuoristrada lungo le strade impervie delle valli ai piedi del Massiccio del Grappa. Parcheggia in un’ansa del sentiero e apre il bagagliaio, dove Gin e Dolly scodinzolano felici.
Appena liberata, Dolly, un giovane lagotto, corre subito a destra, col muso basso. Gin invece sceglie la sinistra, inerpicandosi sulla scarpata. Fabio segue attento i loro movimenti. Dopo un po’, Dolly si sofferma in un punto che pare interessarle. È sul punto di scavare, ma passa oltre: lì sotto c’è un tartufo, il più delizioso e prezioso dei frutti che il bosco possa donare a un suo ospite, ma non è pronto per essere raccolto e lei lo ha capito.
Per parlare della grande riscoperta del tartufo del Grappa è bene partire da qui: dalla capacità della biosfera del Grappa di autoregolamentarsi e dalla necessità di una sempre maggiore sensibilità da parte dell’uomo nell’adattarsi alle leggi della natura.
Un cane da tartufo addestrato e, prima di questo, un padrone che abbia una licenza di raccolta e una formazione specifica in questo campo, conoscono le regole del gioco, pena la scomparsa di questo frutto prezioso, dal gusto iconico, la cui raccolta è inserita anche nella lista di patrimoni da tutelare dell’Unesco (tra l’altro, in questo caso, all’interno della biosfera Mab).
Raccoglitore esperto e grande appassionato di cinofilia, Fabio ci racconta che c’è chi queste regole non le rispetta ancora, quelli che i tartufi li cercano “col rastrello” e che questa è potenzialmente una delle cause che in passato potrebbe aver portato alla temporanea scomparsa di questo prodotto dai registri storici nel Novecento.
Ma prima di parlare della storia, è bene spiegare che la ricerca dei tartufi non è per nulla come andare a funghi: bisogna aver passione, un ottimo rapporto con i cani e, soprattutto, una pazienza smisurata. Una volta trovato il sito giusto, che ha determinate caratteristiche, potremmo dire che il raccoglitore viene messo alla prova: se estrae il tartufo quando è pronto, è molto probabile che l’anno dopo il bosco gliene regalerà un altro nello stesso punto.
Affinché ciò accada il raccoglitore deve coprire con cura la buca da dove lui o il cane hanno estratto il tartufo, affinché le radici non si secchino: questa è un’operazione che Fabio ritiene importantissima, perché determina la salvaguardia di questo prodotto nelle terre del Monte Grappa.
Generalmente, sono Gin e Dolly a scovare il tartufo e a portarlo direttamente al padrone: sempre grazie a questo equilibrio incredibile, di cui noi possiamo essere soltanto spettatori, l’istinto e l’allenamento suggerisce ai due cani di scavare con delicatezza attorno al tartufo senza mai rovinarlo, per poi riportarlo al padrone tenendolo tra i denti senza nemmeno scalfirlo.
Il Tartufo del Grappa è una riscoperta recente, che ha svelato un’antica tradizione documentata nei secoli e che presenta però un enorme buco nero per gran parte del Novecento. A spiegarcelo è il manipolo di coraggiosi che nel 2014, un po’ per caso, ma soprattutto per passione, hanno fondato un’associazione apposita.
Scriviamo “coraggiosi” perché all’inizio, secondo quanto raccontano loro stessi, in pochissimi credevano che il tartufo del Grappa potesse rivelarsi un’opportunità per il territorio, specie considerate le quantità ridotte a disposizione. Oggi, il desiderio più grande è quello di formare un consorzio, che possa regolamentare la raccolta e promuovere le varie specialità a base di tartufo del Grappa che alcuni aderenti hanno accettato di produrre, dal morlacco agli affettati, passando per l’olio di Pove e al burro.
“Quando abbiamo trovato questi tartufi, abbiamo cercato di capire perché non se ne fosse mai parlato prima in questa zona. Poi in realtà abbiamo dimostrato che era effettivamente uno dei prodotti tipici più pregiati e conosciuti almeno nel Settecento – spiega Stefano Zulian, che ha condotto un’approfondita ricerca storica – In una delle prime due “guide” del territorio, per così dire, nel 1780, due erano i prodotti più ricercati del nostro territorio: uno erano i gamberi di fiume, l’altro il tartufo. Un prezziario del 1850 ci indica che venivano vendute al mercato di Asolo, quindi probabilmente anche a Crespano. Anche nel 1820, uno dei primi micologi della zona, il bassanese Giovanni Larber (originario di Crespano), scriveva che il metodo di conservare i tartufi era metterli nell’olio, facendo riferimento anche ad altri metodi di conservazione che utilizzavano i cuochi. Questo significa che già all’epoca era un ingrediente scelto nelle cucine professionali”.
“È curioso il fatto che alcune zone del tartufo, come quella dei Colli Berici, siano rimaste tali e quali, mentre qui, per un lungo periodo, da fine Ottocento a quando l’abbiamo riscoperta, questa tradizione si sia persa completamente. Ancora oggi stiamo cercando di intervistare anziani che si ricordino di averne anche solo sentito parlare quando erano giovani – continua il ricercatore. – Già storicamente era considerato un prodotto di lusso. Era ricercato perché si pensava avesse poteri afrodisiaci, quindi spesso era un regalo con un altro significato sottinteso”.
Così al tempo il diamante nero del Grappa andò perduto nei meandri della storia, ma per fortuna Bruno Ceccato, titolare della Pizzeria Giuseppe Verdi di Crespano e primo promotore di questo prodotto, non ha nessuna intenzione di farlo dimenticare di nuovo: “Da questa ricerca storica, iniziata quasi per caso, abbiamo iniziato a dare valore a quest’eccellenza del nostro territorio attraverso la trasformazione di questo ingrediente in altri prodotti autentici, – spiega Ceccato. – L’abbiamo trasformato solo con prodotti lavorati in maniera naturale, con aromi naturali e olio locale. Abbiamo una salamoia che è per l’80% fatta di tartufo del Grappa, burro chiarificato, vari salumi e poi abbiamo iniziato a collaborare con il caseificio Castellan per dare vita al Morlacco al tartufo del Grappa, che è uno dei prodotti di punta”.
“Il tartufo è un ingrediente particolare e ha un gusto estremamente particolare. Per questo quando abbiamo iniziato questa sperimentazione abbiamo fatto delle prove e abbiamo anche un po’ sbagliato – spiega Sonia Castellan – Prima di riuscire a creare un prodotto equilibrato i nostri casari hanno dovuto impegnarsi parecchio. Per esempio, ci vogliono almeno cinque vaschette di salamoia per ogni forma per far percepire il gusto autentico del tartufo senza sovrastare quello del morlacco”.
“Il nostro impegno è quello di continuare a batterci per creare un consorzio che tuteli il territorio dai raccoglitori abusivi, ma anche da chi non sa valorizzare questo prodotto, creando una piccola economia locale che dia una possibilità di sviluppo anche ai cercatori di tartufi” conclude Bruno, affondando il coltello in una forma di morlacco al tartufo.
Per gli amanti di questo sapore forte, che si dice o piace tanto o non piace per nulla, il consiglio è quello di assaggiarlo abbinato a questi prodotti, senza dimenticarsi, nel farlo, di ringraziare il cercatore e i suoi cani per la pazienza e il Massiccio per il suo dono prezioso.
(Fonte: Luca Vecellio © Qdpnews.it)
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