Nella “piazza” antistante i forni, tre maestri artigiani del vetro formano la loro ennesima opera: con rispetto ma disinvoltura addomesticano il materiale con il fuoco, con l’aria, con l’acqua e con le mani, rendendolo sorprendentemente flessibile.
Tengono il tempo per non farlo raffreddare e quindi solidificare, ma anche per non scaldarlo troppo, al punto da farlo colare a terra. Non temono il caldo, che può arrivare anche fino a sessanta gradi in estate, né hanno paura di scottarsi in qualche modo, pur muovendosi con agilità e fluidità con le loro lunghe canne roventi.
È un mestiere che gli è stato trasmesso da quando erano bambini, che ha a che fare direttamente con Murano e con Venezia e che continua a stupire i visitatori e i turisti, che così comprendono del tutto il valore di un oggetto di vetro come quello.
Tra queste alchimie, che rimandano visivamente a qualcosa di magico, è difficile distinguere dove si ferma l’arte e dove comincia la tecnica: un limite che si fonde e diventa impercepibile tra le due parti di una sensibilità e di una precisione tecnica consolidata nei secoli.
Tanto che, a dirla tutta, ogni singolo artigiano ha un proprio preciso ruolo nella “piazza”, essenziale e insostituibile, tramandatogli dalla famiglia da cui discende. Come il metronomo, che il silenzio tiene i tempi e crea sulla base di uno schema preciso, che noi impiegheremmo decenni per comprendere.
“È una questione di tradizioni, – affermano alla Vetreria Vivarini, nata nel 1967 dall’unione di tre soci e ancora attiva nel mercato dell’isola di Murano, – E deve rimanere così. Nulla deve cambiare”.
Secondo Michele Zampedri della Vetreria Artistica Vivarini, ci sono tre momenti fondamentali storici in cui il settore delle vetrerie ha profondamente impattato sulla città: tra questi c’è il 1224, quando l’arte venne “istituzionalizzata” a Venezia, il 1271 quando venne scritta la “mariegola” (ovvero la madre-regola) che riordina la città e mette ordine nel mondo dell’arte.
Se prima i forni si trovavano quasi tutti a Venezia, il doge di allora decise con un editto di spegnerli e di comandar loro di spostarsi a Murano: l’isola, dove già esistevano due forni funzionanti e vari canali che consentivano il passaggio e il trasporto, sarebbe stata relegata a quel mestiere per sempre.
Tra il 1300 e il 1400 l’arte si consolida e alcune tecniche, che considerano oltre alla calotta tagliata a freddo anche la viscosità intrinseca del vetro, fanno sì che gli artigiani inizino a utilizzare forme più leziose. Nel 1450, un certo Paolo da Pergola, tormentato dall’inquisizione perché interessato all’alchimia, sperimenta le prime composizioni chimiche che rendono il vetro colorato e altri dopo di lui lo simulano.
“Se vogliamo dare una nota di colore a nostra volta alla storia, si dice che un certo Angelo Barovier, grande maestro del vetro colorato di Murano, avesse una figlia femmina che non riusciva a sposare con nessuno – racconta Zampedri. – Barovier sarebbe stato l’unico capace di cambiare colore all’ametista, con una tecnica segreta che non aveva nessun altro a Venezia. Geloso del suo segreto, diede da custodire il ricettario che conteneva i segreti di quel mestiere a sua figlia, affinché lo nascondesse sotto le sottane. Lei però si invaghì del corriere e, una volta “allentati i cordoni”, lui le rubò il ricettario”.
Quando poi a Venezia arrivano gli stampatori, l’arte del vetro viene ulteriormente esaltata: Zampedri ricorda per esempio Pietro L’Aretino, che comincia a fare degli interessanti disegni sul vetro fino a renderlo un’opera d’arte. Oggi, visitando la galleria Vivarini, e osservando la precisione e il realismo di alcune forme in vetro, ci si sorprende di cosa possano fare secoli di perfezionamento, tradizione e competizione, ma anche collaborazione con artisti del calibro di Yoko Ono.
“Il futuro? Sì, è vero: in questo momento è un po’ incerto, – rispondono dalla Vivarini – ma pensiamo a quando un terzo della popolazione veneziana venne spazzata via dalla peste e “i paroni de fornasa” chiedevano di avere nuovi maestri formati per mandare avanti l’attività o a quando c’erano le guerre e non arrivavano i materiali, così i maestri usavano le patate come affinanti, sottraendole all’economia della famiglia. Guardi, noi abbiamo una fenice di vetro all’ingresso che sorge dalle fiamme: la teniamo per ricordare sempre che l’arte è più forte di qualsiasi difficoltà”.
(Fonte: Luca Vecellio © Qdpnews.it)
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