Chissà quanti milioni di sassi del fiume Piave sono passati per le bocche incandescenti delle fornaci di Falzè di Piave.
Eppure a vederle oggi si fatica a immaginare che per tutto il Novecento quello fosse un vero e proprio cuore pulsante per la vita comune di Sernaglia della Battaglia.
Avvicinandosi alla struttura dismessa si può ancora percepire l’intensità del lavoro di molte braccia sernagliesi, il calore della calce viva e il viavai rumoroso di camion e nastri trasportatori.
Il lavoro alle fornaci di Falzè ha coinvolto molte famiglie del territorio per generazioni, fino a coprire quasi tutto l’arco del ‘900: la prima delle due torri che svettano di 20 metri sul fiume sacro alla Patria, è stata costruita nel 1925 e ha divorato sassi fino al 1987 insieme alla seconda, che è stata costruita invece solo a metà anni ‘50, per affrontare gli anni del boom economico dove la calce era pane quotidiano per l’edilizia.
A raccontare la storia e il funzionamento delle fornaci è Claudio Gava, che insieme alla moglie Emanuela Zottis è diventato custode di un pezzo di storia.
“La colata della calce era come un piccolo terremoto – racconta ,- era tanto poderosa che si diceva segnasse le ore in paese, quasi a volersi sostituire alle campane”.
Il processo per ottenere la calce era lungo e preciso: i sassi entravano nelle bocche incandescenti tramite un nastro trasportatore, per poi fondersi per otto ore con il calore che raggiungeva i mille gradi, generato dalla lenta e costante alimentazione del fuoco a lignite e paglia.
Bisognava farlo poco alla volta perché troppo combustibile inceppava la produzione, obbligando gli operai a inforcare dei lunghi bastoni di ferro e inserirli nella fornace battendo e raschiando i bordi, così da far cadere i sassi incollati alle pareti.
Quando poi scendeva la colata veniva immediatamente portata a raffreddare per un lungo periodo immergendola in acqua: solo così diventava finalmente calce “spenta” e utilizzabile.
Le fornaci di Falzè di Piave oggi non vivono solo nei ricordi di chi le ha conosciute perché numerose classi di studenti o appassionati di storia locale vengono spesso a farsi raccontare la loro storia dalla famiglia Zottis, che con piacere ne svela la storia, il funzionamento e gli aneddoti.
“Sono molto legata a questo posto, ci sono nata e qui sono le mie radici: è giusto che io lo porti avanti” racconta Emanuela Zottis, che racconta la storia di famiglia con orgoglio: “È bello tenere viva la memoria di un pezzo di storia locale che ha interessato gran parte della comunità, mio papà ne sarebbe felice”.
(Fonte: Alice Zaccaron © Qdpnews.it).
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