La piazza di Pieve di Soligo vista con gli occhi di un bambino: Piero Gerlin torna agli anni ’60 e racconta il paese

Suona la campanella e in un baleno torniamo al 1960: le scuole Vaccari sono brulicanti di studenti già dal 1876, quando aprirono, e senza sforzo Piero Gerlin rivede la città di Pieve di Soligo esattamente com’era allora, quando era un bambino, e i ricordi scorrono fluidi, precisissimi.

Piero racconta la vita di quei tempi, con molte attività commerciali che oggi sono solo un ricordo, insieme alla struttura fisica originaria della piazza pievigina. Sul lato sinistro della parte frontale del Vaccari, per esempio, c’erano le Poste e sull’angolo a destra una porticina, visibile tutt’ora: lì abitava un’infermiera che girava per il paese a fare le punture a chi ne aveva bisogno, oltre che ad essere una levatrice.

“Con la sua bici Bianchi nera e la sua borsa nera a noi piccoli faceva una gran paura: la Vergani, così la chiamavano, aveva una siringa di vetro da sterilizzare sul gas prima dell’uso. Le venne conferita anche la medaglia d’oro dal Comune ed era anche l’addetta alla ricarica dell’orologio meccanico con le corde”.

Tra le scuole e l’attuale bar Perbacco tutti gli anziani pievigini ricordano l’entrata al Foro boario: chiudeva tutta l’odierna area in porfido che dà su piazza Caduti nei Lager ed era delimitato da un alto muro, del quale si scorge ancora un piccolo tratto proprio alla fine del Polo del Gusto. Il muro, racconta Piero, ogni due metri aveva fissato un anello dove venivano legate le bestie: “Ogni sabato i compratori e venditori si incontravano lì per il mercato e chiudevano gli affari con i “senseri”, i mediatori”.

Proprio al centro del foro boario, dove si alza il grande ombrellone del bar Perbacco, c’era una sorta di pozza, una vasca di 2 metri e mezzo per 4, profonda una ventina di centimetri riempita d’acqua e disinfettante: “Tutte le bestie dovevano passarci attraverso prima di accedere al foro, era la regola per mantenere degli standard igienici” racconta Piero, che ricorda anche le due file di ippocastani lungo tutta la via che porta alla stazione dei Carabinieri: “C’erano solo quelli oltre ai campi. Da piccoli prendevamo quelle castagne matte e ci giocavamo lanciandole in alto sui fili della tensione: restavano appese tutto l’anno”. 

Gerlin sembra ripercorrere a piedi la terra battuta della piazza fino a tornare al negozio di Gianni e Toni Spina: all’angolo del foro boario c’era la loro officina dove vendevano anche bici e moto. “Davanti al marciapiede, stracolmo di bici e motorini, c’era il distributore di benzina e ce n’erano di 3 tipi: benzina Super (96 lire), benzina normale (90 lire) e la miscela, che era manuale”.

Della benzina Ozo forse altri si ricorderanno: c’era un’insegna anche davanti alla biblioteca su un palo di ferro con una freccia a 4 metri di altezza e anche al cosiddetto pindol, (all’attuale rotonda), alla cui base c’era “il reclam” della Ozo.

“Oltre la loro officina c’era la cartolibreria dei Bernardi, – dice Piero – che a noi piccoli piaceva tanto perché vendeva anche giocattoli”. Più avanti cominciava lo stabile della Cassa di risparmio della Marca Trevigiana: era una delle tre banche presenti a Pieve, c’erano poi la Cattolica del Veneto e la Popolare di Novara.

Ai piani superiori abitavano gli impiegati della banca e Piero Gerlin la ricorda bene perché il primo giorno di elementari ai bambini veniva regalata la “musina”: “Era alta, ovale, con un manico e una fessura sopra per inserire le monete, mentre di fianco aveva un’apertura stretta dove si infilavano le 500 o le 1000 lire tutte arrotolate strette. Le chiavi ce le aveva la banca e quando la musina era piena andavi orgogliosissimo a fartela aprire. Erano i tuoi veri primi soldi” racconta. 

Proseguendo il giro della piazza ci si imbatte nella biblioteca, la villa dei Battistella Moccia rimasta quasi intatta, per poi scendere fino all’attuale condominio La Posta, dove al posto della banca di oggi c’era un forno: il forno della Nina Barisana. “Noi passavamo sempre a prenderci la merenda: non avevamo mica i Kinder Brioss o i Buondì, noi avevamo i “panini co l’ua”, e guai a toglierceli!”.

Più avanti ci si fermava al ristorante La Posta, della Resi Pavan: “Il marito Memi Zorzi – ricorda Piero – era il direttore della Cassa di risparmio ed è stato lui ad aver inventato e progettato lo spiedo gigante, ed è sempre stato lui a insegnare al famoso ristoratore Lino a fare il cuoco, tant’è che gli è subentrato nella gestione del ristorante fino a quando non si è trasferito, nei primi anni ‘60”.

Per i curiosi è facile verificarlo: la locanda da Lino ha come simbolo un corno, detto postiglione: era lo stemma dei postini che avevano come punto di riferimento proprio il ristorante ed è stato un modo per Lino di ricordare le proprie origini. 

Alla fine del condominio La Posta si trovava la bottega alimentare dei De Marchi, che come sanno i pievigini di una volta vendevano un po’ di tutto, non solo alimentari: Pietro ricorda infatti anche colori e diluenti nel loro negozio. Di seguito c’erano la Banca Cattolica del Veneto e la pasticceria Gerlin, che mantiene immutato il proprio posto. 

Attraversando la strada (sempre sterrata!) ci si trova di fronte alla loggia: all’angolo che guarda la fontana, negli anni ‘60 c’era un carrettino di una coppia che vendeva frutta e verdura: si chiamavano Guerrino e Sacrestia. “Non era il vero nome di lei ma era una parola che diceva talmente spesso che è stata soprannominata così – sorride Piero Gerlin – Quando c’era brutto tempo stavano al riparo sotto la loggia, ma da lì non si muovevano”.

Al posto della scuola guida c’era un negozio di confezioni, un esercizio commerciale che oggi suona strano, di Sebastiano Corrà. Vendevano anche stoffe di ogni sorta, arrotolate in un filone lungo, piatto e stretto: ce n’erano scaffali pieni di ogni colore e le vendeva misurandole con un bastone di legno che forse ancora qualche sarta custodisce a casa propria.

Il Leon d’Oro, altro superstite della modernità impietosa, era albergo e ristorante delle sorelle Beraldine, ma era anche un famoso ritrovo per giocare a carte: “Si giocava a soldi lì, c’era sempre odore di sigaretta, faceva parte del contesto. Certi giocavano anche 50 o 100 mila lire al raddoppio, una cifra da capogiro se si pensa che erano lo stipendio di un operaio”.

La curva della piazza prosegue, e prima del Vendo Oro c’era la merceria dei Saccardi e negli anni ‘80, proprio attaccato, si è piazzato il negozio di giornali di Toni Toniaz, che è stato sindaco di Pieve negli anni ‘50: “È stato lui a portare il municipio dalla piazza al ponte, sotto la loggia nel 1951” dice Piero.

Di fianco ai giornali, tutti passavano a prendere il latte da Bepi dea lateria: si chiamava Giuseppe Possamai e veniva da Solighetto. Da lui il latte si ritirava in vasi di alluminio o in bottoglia: sul bancone c’era un recipiente di circa un ettolitro che aveva un rubinetto per riempire i misurini da litro, mezzo litro o un quarto di latte: “Bisognava farlo bollire a casa assolutamente, non era mica pastorizzato” dice Piero.

Il latte era davvero a chilometro zero: veniva infatti fornito direttamente dalle famiglie contadine che abitavano fuori dal centro e che con le loro attività più rurali contribuivano al sostentamento di tutto il paese.

(Fonte: Alice Zaccaron © Qdpnews.it)
(Foto: per concessione di Piero Gerlin).
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