Il viaggio del Quotidiano del Piave alla scoperta di grotte e anfratti in Vallata prosegue.
Dopo la grotta del ciclamino di Cison di Valmarino e la grotta del Landrel di Miane, l’elmetto è tornato in testa per entrare nell’affascinante miniera di lignite di Campea.
A guidare la spedizione Cristina Munno, assessore alla cultura del Comune di Cison di Valmarino e coautrice del libro ”La luce della montagna – Grotte, abissi e cavità della Vallata e della valle del fiume Soligo” e Mirca Biz, speleologa.
La storia di un territorio si può raccontare anche attraverso la storia del lavoro dell’uomo, che da sempre lo ha modellato e anche sfruttato per le sue esigenze.
È il caso della miniera di Lignite posta a sud dell’abitato di Campea, in un tratto di bosco non distante alla strada provinciale 152 che porta verso il Ligonto.
Un luogo dal fascino antico, che ci riporta a fine Ottocento, quando i lanifici della zona e le industrie mosse da energia a vapore richiesero l’utilizzo delle risorse fossili, come quelle presenti nelle colline situate nel triangolo Campea, Miane, Refrontolo.
Formatasi 10 milioni di anni fa, la lignite si origina da una fascia di paludi e laghi salmastri e i filoni si assottigliano fino a scomparire man mano che ci si avvicina a Vittorio Veneto. L’estrazione nell’area mineraria ebbe inizio nel 1864 per terminare nel 1948.
Per raggiungere il sito si percorre un sentiero seminascosto dalla vegetazione fino ad arrivare all’ingresso della miniera.
Caschetto in testa e giù fino ad immergersi nell’acqua, avanzando lentamente per una cinquantina di metri: il livello della stessa in certi punti oltrepassa il bordo degli stivali.
L’acqua e i processi di calcificazione nel corso di oltre un secolo hanno “lavorato,” realizzando mineralizzazioni rilevanti sotto forma di piccole stalattiti e perle di roccia.
Sulle pareti si notano ancora le tracce degli inserimenti, dove venivano posti i candelotti esplosivi necessari per sviluppare la miniera.
Il pensiero va alle condizioni di vita sicuramente “disumane” dei minatori che all’epoca lavoravano senza alcun dispositivo di protezione.
Dal rischio di esplosioni, alla fatica con i picconi e nella spinta dei carrelli carichi di carbone, senza dimenticare il duro lavoro di cernita per separare il carbone dalla parte scarta battendo il materiale con una piccola zappa, lavoro quest’ultimo affidato alle donne, la vita del minatore e delle famiglie era una vita grama.
All’interno della cavità svolazzano pipistrelli “destati” dalle luci e nelle rocce si notano delle splendide salamandre. Ripercorrendo a ritroso la galleria e ci si ritrova nuovamente nel bosco con una nuova meta:la “Busa Scalona”.
Si cambia Comune dirigendosi a Follina in località Marzolle di Pedeguarda.
Di fatto la “Busa” è una cava, le cui pietre per le loro caratteristiche e per l’uso che ne è stato fatto, sono conosciute come “crode molere”.
Essendo per loro caratteristiche omogenee, con un grado di cementificazione lavorabile e resistente, fin dal 1600 vennero utilizzate per ricavarne macine per i mulini della zona.
Per raggiungere il sito servivano delle enormi scale, da qui il nome di Busa Scalona, dato a questa è una rara cava di tipo verticale.
Sono ancora visibili sulle pareti delle forme circolari, che non sono altro che i negativi delle pietre estratte, che poi venivano sgrezzate fino a trasformarsi in macine.
Ma a rendere questa cavità artificiale ancor più interessante ha contribuito sicuramente la leggenda popolare. Si narra che, per rispondere alle domande indiscrete dei bambini sulle donne incinte, fosse detto loro che le stesse nascondessero per nove lunghi mesi sotto i vestiti una borsa, con i soldi raccolti giorno dopo giorno per “comprare” i bambini.
Quando la somma necessaria veniva raggiunta, le donne gravide si recavano alla “Busa Scalona”, dove una vecchia dispensava bambini.
Se queste donne si fossero inoltrare nella grotta senza l’aiuto della “siora” levatrice o se si fossero presentate senza i soldi sufficienti, non avrebbero fatto più ritorno a casa.
La vecchia custode della caverna nella leggenda era descritta come arrogante e presuntuosa e consegnava alla donna di turno un bambino a caso, avvolto nella foglia di una zucca. Non c’erano possibilità di scelta; bello, brutto, buono, cattivo, sano o malato, quello era.
La mamma poi, stremata dal viaggio, doveva starsene un bel po’ a letto per riposarsi. Un modo singolare per spiegare la gravidanza e il parto che metteva a tacere la curiosità dei bimbi, legando nello stesso tempo un luogo di lavoro alla tradizione popolare.