Situata in un ambiente per metà pianeggiante e per metà collinare, Maser è l’odierna tappa del nostro vagabondare alla ricerca dei toponimi del trevigiano.
Con i suoi tremila abitanti raccolti intorno alla suggestiva Villa Barbaro – ora Volpi –, Maser sorge in un territorio che per la propria spiccata vocazione agricola, in epoca romana subisce una radicale riorganizzazione degli spazi con la pratica della centuriazione, il cui scopo è assegnare porzioni di terreno pubblico a privati cittadini.
Nota nel XVIII secolo con il toponimo di “Mafere”, Maser pare mutui il proprio nome geografico dal latino maceries ovvero terreno franato, cumulo di pietre, mucchio di sassi. Un ammasso di rovine forse conseguenza del crollo di una costruzione in muratura, investita da una frana che ne ha provocato il cedimento. Oppure, chi lo sa, un deposito di pietrame talmente esteso o singolare da lasciare una traccia indelebile nella toponomastica locale.
A dispetto di questa immagine, Maser è circondata da panorami agresti idilliaci, costellati di opere d’arte che la rendono un privilegiato crocevia alla scoperta degli itinerari palladiani. L’importanza dell’agricoltura per il territorio si intuisce anche osservando lo stemma comunale nel quale una florida vite abbraccia due olivi dai frutti d’oro. La pianta simbolo del territorio è il ciliegio, segnalato già in epoca romana e da allora coltivato con successo grazie al clima favorevole e importanti innovazioni colturali, prima fra tutte l’innesto. La ciliegia maserina, dall’accattivante colore rosso e dal sapore unico, nel Rinascimento è protagonista indiscussa dei sontuosi banchetti dell’aristocrazia veneta. Quella stessa aristocrazia che vede l’agro di Maser come una sorta di giardino di Venezia, nel quale edificare magnifiche residenze di loisir e nelle quali avviare proficue attività agricole e manifatturiere.
Villa Barbaro, come analoghe dimore patrizie, col tempo diviene sinonimo di ospitalità; un’accoglienza della quale non è il caso di abusare. Il detto veneto fora dae bae infatti, non ha nulla a che fare con l’anatomia maschile, ma si riferisce alle palle in pietra o in metallo che ornano i viali d’accesso o le cancellate di molti edifici importanti, come la stessa Villa Barbaro – Volpi. C’è chi riconduce la frase all’uscita delle tabacchine veneziane dal cancello della manifattura guarnito con sfere marmoree o al passaggio dei pazienti di una casa di cura padovana attraverso un’analoga inferriata. La locuzione, pronunciata e scritta in maniera leggermente diversa, è divenuta talmente popolare da divenire addirittura un esplicito slogan politico. A prescindere dall’autentica origine della colorita espressione, limitiamo all’indispensabile la nostra permanenza in casa altrui altrimenti potremmo sentirci dire, dagli stizziti proprietari, che è giunta l’ora di andar fora dae ….!
(Autore: Marcello Marzani).
(Foto: archivio Qdpnews.it).
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